L'ultima inverna - OTMA EdizioniSi crede per lo più che la sensibilità estetica, la propensione a riflettere sulle cose, le attitudini artistiche appartengano in esclusiva a determinate categorie di persone che se ne occupano di diritto, vuoi direttamente praticandole, vuoi teorizzandone. Che non possa esser così è anche troppo banale osservarlo: si tratta di dimensioni che in linea di principio appartengono ad ogni essere umano - anche se possono essere presenti ora in modo cosciente ora inconsapevole, qua possono manifestarsi in modo più pronunciato e là meno, e in qualche caso sembrare addirittura assenti. E anche se gli specialisti possono beninteso vantarne una conoscenza più adeguata degli altri. Qualcosa di analogo, mutatis mutandis, volendo esemplificare, vale per le dimensioni etica, religiosa, politica e, a tutta evidenza, biologica. Sarebbe grottesco pensare che esse tutte costituiscano una sorta di proprietà privata di coloro che ne hanno piena consapevolezza. Costituiscono piuttosto aspetti imprescindibili della realtà di cui noi tutti tout-court siamo fatti. Non sarebbe neanche da dire, se non circolassero talvolta modi di pensare che sembrano presupporre il contrario. Così è per il gusto e per la sensibilità poetica, che non sono appannaggio esclusivo di esseri privilegiati quali i poeti come tali riconosciuti, e men che meno dei critici o degli studiosi di cose letterarie, che soli (e la cosa è quanto meno dubbia) sono per solito ritenuti i detentori di criteri di giudizio oggettivi, di quelli "giusti" per valutare le realtà estetico-artistiche. Allo stesso modo propensioni meditative si possono incontrare dovunque, non solo nei filosofi di professione. Certo le facoltà artistiche, come quelle religiose o quelle analitiche, si concentrano al massimo grado in quelli chiamiamo i grandi artisti della tradizione, nei santi, negli scienziati, nei grandi pensatori. Ma in realtà costituiscono dimensioni antropologiche potenzialmente attive in ognuno: si tratta di attitudini diffuse, sia pur in modi e a livelli di intensità diversissimi tra loro nei differenti contesti umani. Non era del resto il nostro ideale quello di un uomo in grado di sviluppare armonicamente ogni lato della sua personalità: l’uomo che "tra l’altro", e dunque non in modo monomaniacale, fosse scienziato, tecnico, filosofo, artista? Non eravamo portati a stigmatizzare il noto "uomo a una dimensione", la figura di un individuo unilateralmente votato a sviluppare un solo lato della propria personalità, a valorizzare una sola delle proprie potenzialità umane a scapito delle altre? Da questo punto di vista fa particolarmente piacere incontrare chi, come Roberto Bramani Araldi, chimico, pur professionalmente impegnato a tempo pieno in una grande industria, non si rassegna a risolvere nell’attività manageriale la propria umanità. E trova modo (e il tempo) di non far tacere il lato poetico, espressivo e meditativo, in lui così vivo, della propria personalità. Benvenute dunque queste sue poesie: la sua terza raccolta, dopo Castelveccana del 1997 e dopo Da Caldè lungo la Valtravaglia, che è del 2001. Si tratta di composizioni ricche di situazioni e di prospettive, di diverse dimensioni e impegno, concentrate su orizzonti tematici plurimi. A tutta prima colpisce l’accentuata vena riflessiva che percorre questi versi, e investe i grandi interrogativi del vivere: la caducità delle cose e l’amore, la solitudine e la nostalgia, la vecchiaia e la morte: quelli che siamo soliti chiamare problemi esistenziali in una parola. Accanto a questo, ma non in contrasto con questo (anzi come sua naturale espansione direi), è da segnalare una vena moralistica insistita (retaggio di una linea letteraria tipicamente lombarda? In altri tempi si sarebbe parlato di una poesia con pronunciate venature engagé). Questa vena si esprime in una forma di impegno civile, in una (sacrosanta) insofferenza per tanti aspetti della nostra quotidianità, e sa tener vivo uno sdegno in un mondo che sembra confondere ogni reazione morale, e annegare in un deprimente appiattimento ogni valore. Entrambe le inclinazioni, che potremmo dunque chiamare esistenziale e civile, danno voce a un modo di partecipare alla vita, e alle coloriture metafisiche (non è un insulto) che lo intridono. Chi ha avuto modo di conoscere Roberto (ma allora non ci si chiamava per nome, fa un effetto strano ricordarlo ora: oggi accade, troppo spesso senza motivo, il contrario) decenni fa, in quegli anni adolescenziali che sono così decisivi per la formazione di una personalità, ritrova qui certa inclinazione alla malinconia, certa riflessività, che gli erano connaturate, anche se forse non sempre risultavano a tutta prima evidenti come nei suoi versi. Ma, unita a queste, tra le note di fondo della sua natura va annoverata anche l’attitudine all’osservazione delle cose, che si esprime nella notazione di scorci paesaggistici netti, di gesti curiosi, di situazioni toccanti. Va da sé che i momenti migliori sono quelli in cui la meditatività sa rapprendersi in correlati oggettivi in grado di risolverla in termini adeguati. Come a mio avviso accade, exempli gratia, nei versi spigliati di Silvana, o in qualche misura in L’omino dell’ascensore, in cui nessun residuo riflessivo esplicito si impone a sé, ma un mondo di impressioni felicemente incontra le immagini che gli si addicono. Avesse senso un auspicio (ma qui è soprattutto questione di gusti personali) sarebbe che su questi toni insistano anche in futuro gli esercizi poetici di Roberto. Un’altra cosa è da osservare: scrivere poesie è pur sempre, in modo più o meno conscio, anche un lasciar riaffiorare le passioni che si sono sprigionate in personali vagabondaggi nel mondo della cultura. Di qualunque spessore sia, un tentativo di far versi in proprio non può essere immune da echi del passato, sedimentati nell’animo. Così, riemergono nelle poesie di Roberto ritmi, stilemi, scelte lessicali non nuovi. Si potrebbero facilmente individuare i retaggi di letture fatte che tornano in queste poesie, e fare nomi (qualcun lo ha già fatto: Rinaldi scorge tracce leopardiane e pascoliane in passate prove di Roberto). Non sembra tuttavia prudente dar ragione a chi annette un valore esclusivamente al nuovo e giudica su questa falsariga soltanto ogni prodotto culturale. C’è un senso anche nel riprendere vie che già sono state percorse - quasi un ricantare tra sé e sé, con radicata adesione interiore, le suggestioni, le verità e i valori che in esse si sono prospettati. È per questa via che un amore apprende a farsi produttivo. Del resto neppure le tematiche esistenziali che si affacciano più e più volte in queste poesie sono nuove, né potrebbero esserlo. Vero è che si tratta solo di ripensarle, di farle intimamente proprie – e che è importante farlo. E’ poi il modo a decidere dell’autenticità o meno di ogni loro ripresa: ciò che conta è la declinazione che subiscono nell’universo in cui vengono riproposte, sono le immagini in cui si danno carne, il ritmo delle parole in cui si esprimono. E certo non mancano di sapori originali questi versi nati "sotto la scorza pietrosa della sincerità" (come si esprime l’Editore nell’introduzione a Castelveccana). Un’altra cosa vorrei sottolineare, e non è priva di significato ai miei occhi. Queste poesie non hanno nulla di sperimentale, né di avanguardistico. Suonano piuttosto tradizionali (non uso il termine in senso negativo), sembrano appartenere più a un passato irripetibile che non ai nostri tempi convulsi e al tempo stesso svagati. Questo tuttavia possiede un risvolto positivo, nella misura in cui esse non si mostrano troppo preoccupate di apparire à la page o di seguire mode culturali. Si può scrivere per diporto, per gioco, per farsi buon sangue – e non c’è nulla di male in questo. Ma c’è qualcosa nelle poesie di Roberto che resiste a esser letto come mero divertimento - stando almeno al senso in cui esse sembrano vissute dal loro autore. Questi versi vorrebbero anche tracciare un’implicita linea di resistenza a non pochi, e non sempre gradevoli (a voler essere eufemistici), tratti del nostro vivere, e alla stanchezza mortale e agli stordimenti che lo minacciano. Non per preconcetto rifiuto di ogni modernità, che anzi certamente Roberto anche per professione sa apprezzare. Bensì se mai per rigetto, presumo (ma solo lui potrà dirlo), del modo in cui certe innovazioni sono gestite, e per taluni effetti che producono nel nostro vivere. Per un istintivo "contrastare la crudezza del presente" (come sempre l’Editore di Castelveccana si esprime) dunque, in nome di valori che in controluce gli stessi versi lasciano trapelare.
Gabriele Scaramuzza Roberto Bramani Araldi |
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