Roberto Bramani Araldi

Big Bang
La luce del tempo

di Angelo Manitta

La lettura dell’opera di Manitta non può prescindere dal suo precedente lavoro – Sentieri d’assoluto – di cui rappresenta il naturale sviluppo ed ampliamento.

Anche in questo caso sussiste l’ordito di un racconto, seppur spezzato in diversi tronconi, alternato fra brani in prosa – brevi – e variazioni in poesia – più consistenti – utilizzate per esaltare o porre in maggiore evidenza lo snodarsi della vicenda: il risultato è accattivante, tanto che il lettore viene trascinato dall’evolversi degli eventi, pur nell’inevitabile difficoltà determinata da una capacità d’espressione culturalmente evoluta, ricca di riferimenti mitologici e di neologismi.

Ogni campo dello scibile è utilizzato per conseguire lo scopo precipuo della narrazione, individuabile in un’analisi poetico-filosofica dell’esistenza dell’uomo, vivisezionato con rudezza nell’ambito di tutte le componenti negative, ma anche positive, che costituiscono la sua essenza.

Gli episodi nei quali è suddivisa la composizione non alterano una sostanziale unitarietà della narrazione, in Gilgamesh si assiste ad una continua metamorfosi fra bene e male, l’eroe nasce come emblema del male, lo combatte, il male assume sempre nuove forme e pur sconfitto, per consentire di rappresentare la parte migliore dell’uomo, diviene l’elemento dominante che si ritrova continuamente anche negli altri passaggi ove le varie patologie umane trovano una disamina spietata in un’osmosi fra mito e realtà odierna.

Il linguaggio è forte, aspro, crudo per rappresentare con incisività i concetti che lo scrittore vuol far emergere con particolare veemenza, “il tramonto fa scorrere sangue”, “il cuore di Sita rimaneva, strappato e infilzato da spine cruente, sulla terra” oppure “e il terrore insanguinerà la terra e scudi crociati imperverseranno su campi minati dove bambini raccoglieranno fiori esplosivi” e anche “delle case non sono rimasti che brandelli di muri, di corpi umani non restano che brandelli di anime. La polvere brucia le narici, gli odori aspri annebbiano la vista” sono solo alcuni dei molteplici passaggi di cui è costellata la narrazione.

La guerra è immanente, è vista come un flagello infernale cui l’uomo ricorre sia per meschini motivi, che ammanta di nobili ideologie, sia per liberare l’umanità dalle ingiustizie: in ogni caso bruttura dipinta con orrore e disgusto.

Ma nell’ambito della rappresentazione dei mali della società trova ampio spazio una visione bucolica della natura rappresentata con accenti di rara ispirazione poetica “molecole d’aria si mescolano a verdi foglie di miracolo, la spiaggia si tramuta in morbido letto e i sassi tondeggianti in morbidi guanciali” e “bianche ali si dilungano sulle rive fugaci d’un sorriso ormai dissolto” o “l’infinito, poggiato oltre il filo del prato, si mescola all’impercettibile sentiero di fiori che filtra attraverso la siepe del pensiero astri di luce, intrisi a diamanti", oltre al percepibile influsso della sensualità “chiusa in alcove da sottili drappi di seta” che riesce ad alleviare il peso delle sofferenze che il cammino esistenziale propone con dovizia, anche se da un certo lato diviene una specie di schiavitù.

In alcuni casi emerge il gusto della contrapposizione terminologica nell’esternazione di un concetto, quasi compiacimento edonistico della dimestichezza linguistica dell’autore, che sa di poter giocare facilmente con i termini e le immagini “sensuali parole borbotta al sole, suo amante” contrasto fra la dolcezza di una frase “sensuale” e il verbo borbottare, utilizzato in situazioni certamente diverse, oppure “l’anima liba acque immortali tra miasmi….” in questo caso contrasto violento non solo come uso di vocaboli contrapposti, ma anche come confronto ideologico.

Un ulteriore elemento caratterizzante questa opera davvero impegnata, non solo per il ricorso di un elevato livello di erudizione, per l’uso, seppur sporadico, del latino e del greco, è rappresentato, oltre che dal tempo, associato al vuoto, a dimensioni immense travalicanti il breve respiro della vita umana, dall’interrogativo sulla giustizia che punisce in modo spesso spietato e, ancora più sconvolgente, in modo cieco “a testa alta va il truffatore, che semina miseria, che inganna i deboli, che spoglia i poveri, che profitta della buona fede di gente dal cuore candido giglio” e “la legge è fatta per condannare i giusti, per violentare gli onesti, per martoriare i buoni”, dove, fra l’altro l’umanità divisa vede la parte perdente provare, forse, astio ed odio nei confronti di chi si sente portato ad offrire aiuto, proprio perché non può accettare la miglior condizione degli altri e la sua personale posizione di sconfitta.

Un’opera, quindi, molto impegnata, costruita sapientemente, colma di riferimenti culturali collegabili non solo alla nostra storia e civiltà, ma che spazia su altre culture – pregevole il riferimento al mito della civiltà khmer per le danzatrici sacre Apsaras, eternate nei bassorilievi dei templi di Angkor -, rendendo la lettura sicuramente non scorrevole – questo non è certamente lo scopo dell’autore -, ma inducendo alla riflessione e alla meditazione sulla profondità delle idee e delle analisi affrontate con uno spirito innegabilmente innovativo e con una prosa/poesia osmotiche, dove talvolta è difficile discernere la linea di separazione fra le due componenti che riescono a catturare in continuità il senso estetico del lettore.

Roberto Bramani Araldi

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